Infiammazione, microbiota e fattori ambientali nella genesi dell’autismo
L’autismo è una condizione eterogenea, la cui origine è ancora oggetto di studio e dibattito. Oltre ai fattori genetici e neuroevolutivi comunemente analizzati, alcuni studi hanno approfondito il ruolo del sistema immunitario nella genesi e nella modulazione dei disturbi dello spettro autistico (ASD).A partire da queste osservazioni, il presente articolo esplora il possibile legame tra autismo, infiammazione e autoimmunità, integrando anche aspetti legati alla selettività alimentare, alla funzione del microbiota intestinale e al ruolo dei fattori ambientali. Una lettura integrata che, senza trarre conclusioni definitive, intende evidenziare l’importanza di un approccio multifattoriale e dinamico allo studio dell’autismo.
Autismo, malattie autoimmuni e neuroinfiammazione
Alcune ricerche indicano un possibile aumento del rischio di malattie autoimmuni nelle persone autistiche. In particolare:
• Tiroidite di Hashimoto
• Celiachia
• Diabete di tipo 1
• Lupus eritematoso sistemico
• Sindrome di Sjögren
• Artrite reumatoide
Tuttavia, le evidenze disponibili sono ancora frammentarie e derivano spesso da studi con campioni ridotti o basati su dati auto-riportati, il che limita la forza delle conclusioni.
Questa connessione suggerisce che l’autismo possa essere almeno in parte influenzato da un'alterazione del sistema immunitario.
Alcune metanalisi e studi osservazionali suggeriscono una maggiore incidenza di patologie autoimmuni nei genitori di bambini autistici, ma i risultati sono variabili e non sempre coerenti, indicando la necessità di ulteriori approfondimenti.
La neuroinfiammazione è stata osservata in alcuni dei casi analizzati di disturbo dello spettro autistico (ASD), suggerendo che il sistema immunitario giochi un ruolo nel determinare alcuni aspetti della condizione.
In particolare, sono stati rilevati:
- Aumento persistente di mediatori pro-infiammatori: livelli elevati di IL-6 e TNF-α, riscontrati sia nel liquido cerebrospinale che nel plasma, che compromettono il normale sviluppo neuronale.
- Attivazione anomala della microglia: queste cellule immunitarie, normalmente coinvolte nel rimodellamento sinaptico, diventano iperattive, contribuendo a una disfunzione nella comunicazione neuronale e a una riduzione della plasticità cerebrale.
- Risposte autoimmuni esacerbate: l'infiammazione cronica può innescare risposte autoimmuni che aggravano il quadro, creando un ciclo autoalimentato che rende la condizione particolarmente resistente agli interventi terapeutici tradizionali.
- Interazione di fattori genetici ed ambientali: tali elementi sembrano contribuire alla persistenza e all'intensità dell'infiammazione, suggerendo che la predisposizione genetica, unita a fattori esterni, possa favorire questo stato infiammatorio cronico.
La questione è stata indagata anche in Italia dalla Fondazione Veronesi che ha sottolineato come questo scenario possa aprire la strada a possibili strategie terapeutiche innovative che puntano a modulare la risposta infiammatoria e a ristabilire un equilibrio immunitario.
Causa o conseguenza?
Se l’autoimmunità sia la causa o una conseguenza dell’autismo è una domanda che la ricerca non ha ancora risolto del tutto. Studi scientifici sempre più numerosi hanno osservato una connessione tra il sistema immunitario e l'autismo, ma ciò non significa automaticamente che ci sia un rapporto di causa-effetto. L’articolo “Immune Dysfunction and Autoimmunity as Pathological Mechanisms in Autism Spectrum Disorders” (2018) ha raccolto numerose evidenze in merito, ma sottolinea che non abbiamo ancora prove meccanicistiche solide, cioè non sappiamo come queste alterazioni immunitarie influenzerebbero il cervello in fase di sviluppo.
Malattie autoimmuni e selettività alimentare
L’alimentazione svolge un ruolo centrale nel modulare il sistema immunitario e il funzionamento del sistema nervoso centrale. Dato questo, la selettività alimentare osservata nelle persone autistiche, assume un’importanza clinica e biologica tutt’altro che marginale.
La selettività alimentare si manifesta con una dieta estremamente ristretta, spesso limitata a meno di 20 alimenti, e con una marcata rigidità rispetto a sapori, consistenze, temperature e persino forme o colori dei cibi. Numerosi studi hanno evidenziato come diete monotone e povere di nutrienti, tipiche della selettività alimentare severa, favoriscano uno squilibrio del microbiota (disbiosi), aumentando la permeabilità intestinale (fenomeno noto come leaky gut). Questa condizione facilita il passaggio nel sangue di molecole infiammatorie e tossine batteriche, capaci di innescare risposte autoimmuni e processi di neuroinfiammazione.
Lo studio “Un GWAS su larga scala del gradimento alimentare rivela determinanti genetici e correlazioni genetiche con tratti neurofisiologici distinti” evidenzia l'influenza della genetica sulle preferenze alimentari e suggerisce che tali preferenze siano legate a tratti neurofisiologici specifici.
Un recente articolo pubblicato su New Scientist condotto su modelli murini ha riportato i risultati di uno studio che suggerisce una comunicazione bidirezionale tra cervello e microbiota intestinale. In particolare, la ricerca ha mostrato che segnali neurali possono influenzare la composizione del microbiota intestinale in circa due ore, evidenziando come i segnali nervosi possano modulare rapidamente l'ecosistema microbico dell'intestino (New Scientist, 2024). Tuttavia, non ci sono ancora evidenze dirette di un effetto analogo negli esseri umani.
Questa scoperta si inserisce in un contesto di evidenze crescenti che dimostrano come il microbiota intestinale possa influenzare il funzionamento cerebrale, il comportamento e la salute mentale, ma ribadisce anche l'importanza dell'influenza inversa, ovvero del cervello sul microbiota (PMC10331547).
Inoltre, studi precedenti hanno dimostrato che fattori psicologici, come lo stress, possono alterare la composizione del microbiota intestinale, influenzando negativamente la salute mentale e comportamentale (ACS Medical Chemistry Letters, 2023). Questo rinforza l'ipotesi che interventi mirati alla gestione dello stress e allo stile di vita possano avere effetti benefici sia sulla salute mentale che su quella intestinale.
Traumi interpersonali ed epigenetica
Ci sono ancora persone convinte che l’autismo coincida esclusivamente con la disabilità intellettiva. A volte sono genitori di bambini con autismo di livello 3, che, comprensibilmente, faticano a riconoscere cosa possano avere in comune i propri figli e le persone autistiche di livello 1 o con alto potenziale cognitivo (APC).
In altri casi, però, a perpetuare questa visione errata sono professionisti sanitari che non hanno mai osservato da vicino il lavoro clinico continuativo svolto da psicologi e psichiatri con persone senza disabilità intellettiva.
Un lavoro che include anche la rilevazione dei danni — spesso profondi — causati da diagnosi tardive.
Uno dei motivi di questa disinformazione è che si parla ancora troppo poco di disadattamento. Nel contesto dell’autismo, il disadattamento non si riferisce solo alla difficoltà di adattarsi all’ambiente, ma anche — e soprattutto — a come l’ambiente risponde alla neurodivergenza.
Alcuni dati aiutano a comprendere la portata del problema:
- Secondo dati ISTAT del 2023, in Italia vi sono circa 110.000 giovani adulti autistici tra i 18 e i 30 anni; tuttavia meno del 10% risulta occupato con un contratto regolare, evidenziando una significativa difficoltà di accesso e inclusione nel mercato del lavoro-
- I colloqui di lavoro rappresentano una delle principali barriere (PMID: 36794473): le persone autistiche si trovano spesso in difficoltà di fronte a codici sociali impliciti, domande vaghe o situazioni che richiedono “mascheramento” (cioè lo sforzo di apparire neurotipici).
Questo porta a ansia, stress e affaticamento. - Le persone autistiche perdono più facilmente il lavoro non per incapacità tecnica, ma per difficoltà legate all’interazione sociale e alla comunicazione con persone neurotipiche (PMID: 37052419). Gli ambienti di selezione non inclusivi (luci forti, rumori di fondo, interazioni valutate in base a codici sociali spesso incomprensibili o innaturali per le persone autistiche) e la scarsa consapevolezza da parte dei datori di lavoro aggravano le difficoltà.
- Secondo una meta-analisi pubblicata da Santomauro et al. (2024), si stima che nel 2021 vi siano stati circa 13.400 decessi per suicidio in eccesso tra le persone nello spettro autistico, rispetto alla popolazione generale. In particolare, gli individui autistici senza disabilità intellettiva presentavano un rischio più di cinque volte superiore rispetto ai coetanei neurotipici.
- Il rischio di morte per suicidio per le donne autistiche rispetto alle donne non autistiche era significativamente maggiore rispetto al rischio per gli uomini autistici rispetto agli uomini non autistici.A livello globale, nel 2021, il carico sanitario dovuto al suicidio è stato maggiore tra le persone autistiche rispetto ai disturbi da uso di cocaina, alla rabbia o al cancro ai testicoli nella popolazione totale (PMID: 39197224).
Lo studio “PTSD and autism spectrum disorder: Co-morbidity, gaps in research, and potential shared mechanisms” riporta:
“la ricerca condotta separatamente nelle aree di PTSD e ASD suggerisce fortemente diversi potenziali percorsi che collegano entrambi i disturbi. Concludiamo che c'è un bisogno urgente di più ricerca PTSD-ASD, concentrandosi non solo sulla prevalenza di stress traumatico negli individui con autismo, ma anche sulla loro percezione potenzialmente unica di eventi traumatici, in particolare dalla sfera sociale. Tale ricerca può avere importanti implicazioni cliniche.”
I traumi interpersonali, specialmente nell’infanzia, possono alterare lo sviluppo emotivo, relazionale e biologico lungo tutto l’arco della vita. Questi effetti includono anche modifiche epigenetiche che possono portare allo sviluppo di malattie.
Biomarcatori: cosa stiamo cercando?
Per cercare risposte sulle cause dell’autismo, la ricerca si è concentrata sui biomarcatori, ossia caratteristiche misurabili e oggettive che potrebbero fornire informazioni utili su ciò che accade nel corpo o nel cervello di una persona autistica. Un biomarcatore può essere:
- Molecolare, come la presenza nel sangue di citochine pro-infiammatorie (sostanze che indicano una risposta infiammatoria in corso, come l’IL-6 o il TNF-α).
- Fisiologico, come l’attività elettrica del cervello misurata con elettroencefalogramma (EEG).
- Strutturale, come le differenze nella forma o nel volume di alcune aree cerebrali osservate tramite risonanza magnetica.
Nessuno dei biomarcatori attualmente studiati è stato ancora validato per l’uso clinico. Come sottolineato in una revisione pubblicata nel 2023 sul The American Journal of Psychiatry (Parellada et al.), la diagnosi di autismo si basa ancora esclusivamente su strumenti clinico-comportamentali, come osservazioni strutturate, interviste ai genitori e scale di valutazione standardizzate.
Tuttavia, la ricerca in questo ambito è in rapido sviluppo e, pur essendo ancora preliminare, mostra risultati promettenti che potrebbero in futuro supportare diagnosi più personalizzate.
I geni coinvolti: sinapsi e neurotrasmettitori
Anche se non esiste un test biologico per diagnosticare l’autismo, la genetica ha fornito molte indicazioni utili. Studi su ampie coorti di pazienti hanno identificato varianti genetiche comuni associate all’ASD. In particolare, le alterazioni riguardano geni che controllano:
1. Recettori dei neurotrasmettitori, cioè le proteine che ricevono i segnali chimici nel cervello. Alcuni esempi:
- Serotonina, implicata nella regolazione dell’umore, del sonno e della socialità.
- Dopamina, coinvolta nella motivazione, attenzione e controllo motorio.
- Ossitocina, legata alla capacità di instaurare legami sociali.
2. Metabolismo dei neurotrasmettitori, come le vie del triptofano, precursore della serotonina e della melatonina. Alterazioni in queste vie possono contribuire a fenomeni come l’iperserotonemia (livelli elevati di serotonina nel sangue, riscontrati in alcuni soggetti autistici) e ai frequenti disturbi del sonno.
3. Molecole di adesione cellulare e proteine di scaffolding, che aiutano le cellule nervose a formare connessioni stabili e funzionali. Queste strutture sono essenziali per l’organizzazione delle sinapsi, i punti di contatto attraverso cui i neuroni comunicano.
L’autismo come sinaptopatia
Quando le sinapsi non funzionano in modo efficiente o si formano in modo anomalo, si parla di sinaptopatia. Le sinapsi sono i punti di connessione tra i neuroni: è lì che avviene lo scambio di informazioni nel cervello. Ogni pensiero, emozione, percezione sensoriale o azione motoria è il risultato di una rete di sinapsi che comunicano tra loro in modo organizzato.
Il corretto funzionamento delle sinapsi è quindi essenziale per tutte le funzioni cognitive e comportamentali. Quando queste connessioni sono troppo deboli, troppo forti, troppo numerose o troppo disorganizzate, il sistema nervoso può andare incontro a problemi di elaborazione, che si riflettono sul piano clinico. Per questo un processo fondamentale per garantire l’equilibrio sinaptico è la potatura sinaptica (synaptic pruning), che avviene soprattutto nei primi anni di vita. Durante questa fase, il cervello elimina selettivamente le sinapsi, rendendo le reti neuronali più rapide, precise ed economiche in termini energetici.
Negli individui autistici, alcuni studi – principalmente condotti su modelli animali e mediante analisi genetiche – suggeriscono che il processo di potatura sinaptica possa essere meno efficiente, con un numero superiore alla norma di connessioni sinaptiche attive. Sebbene si ipotizzi che questo possa contribuire a una maggiore complessità delle reti neurali, l’associazione con caratteristiche cognitive o sensoriali specifiche è ancora oggetto di ricerca e non conclusiva (PMID: 21778362, PMID: 27400854, PMID: 38499656).
Questa complessità può tradursi in abilità cognitive distintive, come una memoria visiva particolarmente sviluppata, una forte attenzione ai dettagli o una straordinaria capacità di rilevare regolarità nei dati, nei suoni, nei movimenti. Tuttavia, può anche portare a difficoltà nella regolazione degli stimoli sensoriali (ad esempio, fastidio per luci, suoni o odori che per altri passano inosservati) e, soprattutto, a fatiche significative nel campo della comunicazione sociale.
In particolare, un eccesso di connessioni non selezionate può rendere più difficile filtrare e interpretare i segnali sociali, soprattutto quelli ambigui, impliciti o non verbali. Espressioni facciali sottili, tono della voce, sguardi fugaci, allusioni linguistiche o regole sociali non esplicite possono risultare più difficili da decodificare. Il cervello autistico, “iper-connesso”, può ricevere troppi segnali contemporaneamente senza riuscire a stabilire una gerarchia di rilevanza o un contesto chiaro.
Questa caratteristica non implica un’incapacità di comprendere l’altro, ma una diversa modalità di elaborazione, spesso più analitica e meno intuitiva. Nei contesti sociali quotidiani – costruiti su una comunicazione rapida, sottintesa e in continuo mutamento – questa differenza può generare sensazione di sovraccarico, confusione o isolamento. Non per mancanza di empatia, ma per un carico cognitivo più alto necessario per orientarsi tra segnali molteplici e talvolta contraddittori.
In parallelo alle sinapsi, anche le cellule gliali giocano un ruolo chiave. Tra queste, la microglia – una sorta di “cellula sentinella” del cervello – ha il compito di proteggere i neuroni e, durante lo sviluppo, di contribuire alla loro organizzazione.
Negli individui autistici, diversi studi (PMID: 28159644, PMID: 39580060, PMID: 22466688) hanno riscontrato:
- Un aumento della densità microgliale, cioè un numero superiore alla norma di queste cellule nel cervello.
- Una maggiore produzione di molecole infiammatorie, che possono influenzare negativamente la maturazione neuronale.
Anche se l’analisi genetica non ha mostrato un’attivazione eclatante dei percorsi infiammatori, molti dei geni trovati sono particolarmente attivi nelle cellule gliali, suggerendo un coinvolgimento del sistema immunitario più sfumato, ma comunque rilevante.
Varianti genetiche selezionate
Uno studio pubblicato su PLOS Genetics (Polimanti & Gelernter, 2017) ha ipotizzato che alcune varianti genetiche associate al disturbo dello spettro autistico (ASD) possano essere state selezionate positivamente nel corso dell’evoluzione umana.
L’analisi ha utilizzato dati genetici su vasta scala, provenienti da studi di associazione genome-wide (GWAS), rilevando segnali di selezione naturale in varianti espresse in tessuti cerebrali e aree coinvolte nello sviluppo neuronale. In particolare, queste varianti risultano attive in processi come la formazione delle sinapsi e l’organizzazione delle reti neurali.
Questo suggerisce che, in determinati contesti storici e ambientali, alcune varianti genetiche associate all’autismo potrebbero aver offerto vantaggi adattativi e quindi essere state selezionate positivamente. Tuttavia, tale ipotesi di una funzione adattativa necessita di ulteriori conferme empiriche.
Le funzioni cognitive associate riguardano aree come il ragionamento astratto (pensiero concettuale e simbolico), la capacità analitica (analisi di problemi complessi in modo logico e dettagliato) e l’apprendimento strutturato (predisposizione all’ordine, alle regole e alla categorizzazione).
Presente e prospettive future
L’autismo è stato profondamente ridefinito dal DSM-5, che lo riconosce come uno spettro, valorizzando la diversità delle manifestazioni e la complessità della condizione. Tuttavia, in Italia abbiamo una realtà critica: l’iter diagnostico per l’autismo è ancora estremamente disomogeneo, sia per i test utilizzati, che per la preparazione degli specialisti che se ne occupano.
È fondamentale adottare un approccio uniforme a livello nazionale, garantendo che ogni persona autistica possa accedere a un percorso diagnostico completo, che includa non solo le classiche valutazioni psicodiagnostiche, ma anche esami strumentali in grado di rilevare eventuali comorbidità o condizioni mediche associate.
Per le persone autistiche che desiderano approfondire il proprio stato di salute, esplorare le evidenze scientifiche presentate oggi, rappresenta un passo importante verso una maggiore consapevolezza e un supporto personalizzato. La diagnosi non è un punto di arrivo, ma l’inizio di un percorso di comprensione e cura della propria neurobiologia.
Fonti
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